association internationale pour une politique industrielle des technologies de l'esprit
Cinque anni dopo la sua fondazione,
tre anni dopo l'inizio della crisi economica mondiale,
Ars Industrialis pubblica un nuovo manifesto
MANIFESTO 2010
1. Nel mese di aprile 2005, al momento della fondazione di Ars Industrialis, sostenevamo nel nostro primo Manifesto1 che la deviazione sistematica del desiderio verso le merci – organizzata dal marketing attraverso le industrie culturali –, e la sottomissione totale della vita dello spirito agli imperativi dell'economia di mercato che ne risultava, conducevano «inevitabilmente, infine, a una crisi economica mondiale senza precedenti», nel corso della quale l'attuale sistema capitalistico si rivelerebbe essere strutturalmente «autodistruttivo».
Cinque anni dopo il suo scoppio nel 2007, la crisi planetaria, a causa del crollo del sistema dei «subprimes», continua a estendere le sue conseguenze calamitose. Se la cartolarizzazione e le tecniche finanziarie della diluizione della responsabilità sono stati il catalizzatore della crisi, quest'ultima non è tuttavia soltanto una crisi del capitalismo finanziario, divenuto essenzialmente speculativo, cioè tossico – poiché in esso,sistematicamente, il breve termine gioca contro il lungo termine. Più generalmente, e molto più gravemente, si tratta della crisi del modello consumista tale che, poggiando dall'inizio del XX secolo sulla strumentalizzazione del desiderio (pensata da Edward Bernays, che strumentalizzava così la teoria dell'inconscio di Freud, suo zio), conduce inevitabilmente alla distruzione del desiderio.
Ciò che questa crisi planetaria mette in evidenza, segnando così la fine della globalizzazione intesa come planetarizzazione del modello consumista, è che la distruzione del desiderio causata dallo sfruttamento consumista conduce inevitabilmente alla rovina dell'investimento in tutte le sue forme – in particolare, nelle forme dell'investimento economico, politico e sociale che fondano l'economia politica – e che c'è un legamesistemico fra il comportamento pulsionale dello speculatore e quello, ugualmente pulsionale, del consumatore. Il disinvestimento è la conseguenza massiva del breve-termismo neoliberale di cui la crisi, dopo tre anni, rivela gli effetti fatali.
Come il comportamento dello speculatore – che è un capitalista che non investe più –, così il comportamento del consumatore è diventato strutturalmente pulsionale. Il suo rapporto con gli oggetti di consumo è intrinsecamente distruttivo: è fondato sulla gettabilità, ovvero sul disinvestimento. Quest'ultimo libera una pulsione distruttiva di cui la conseguenza – in quanto distruzione della fedeltà agli oggetti del desiderio – è la generalizzazione e l'articolazione sistemica e distruttrice delle componenti pulsionali dei consumatori così come degli speculatori, poiché genera una stupidità sistemica2.
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2. L'oggetto del comportamento pulsionale che è l'oggetto del consumo, è strutturalmente gettabile e deve essere gettato per assicurare il compimento dei cicli tipici dell'economia fondata sull'innovazione, quella che Joseph Schumpeter chiamava «distruzione creatrice». La conseguenza è che la globalizzazione del modello consumistico provoca uno spreco colossale in cui ognuno sa di essere diventato insostenibile.
Ora, mentre questo calo generalizzato d'avvenire inquina gli ambienti naturali, la gettabilità dell'oggetto lede lo stesso soggetto che lo getta: che si sente gettabile esso stesso. La società consumista si dimostra così essere divenuta tossica, al giorno d'oggi e agli occhi di tutti, non soltanto per l'ambiente fisico, ma anche per le strutture mentali e gli apparati psichici: in quanto pulsionale, essa diviene massivamente assuefatrice[1]– (motivo per cui l'associazione nazionale francese degli stakeholders in tossicologia e tossicodipendenza ha messo nel 2009 il suo congresso sotto il segno della «société addictogène».)
Ecco la reale portata della crisi, di cui gli aspetti finanziari ne sono solo un aspetto. Ora, l'effetto più massivo e devastante della dipendenza è che chi ne è vittima non si prende più cura di sé, né degli altri, né del mondo che lo circonda: è un irresponsabile sul quale non è più possibile contare. Si instaura, così, una società dell'incuria3 – ovvero una distruzione della società, ciò che abbiamo chiamato una dissociazione.
È in un tale contesto che la domanda del prendersi cura può essere posta in un nuovo modo politico e non essere limitata al campo medico o a quello etico: la questione del prendersi cura deve ritornare al cuore dell'economia politica – e con essa, ovviamente, di una nuova politica culturale, educativa, scientifica e industriale capace di prendersi cura del mondo. È perciò che poniamo come assioma delle nostre riflessioni e azioni che economizzare significhi prima di tutto prendersi cura – come suggerisce il senso originario del verbo economizzare, e come ognuno sa in cuor suo.
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3. Nel corso dei cinque anni che sono trascorsi, Ars Industrialis ha affinato e completato le sue ipotesi di partenza. Il risultato principale dei suoi lavori consiste nell'affermare che il modello industriale fondato sul consumismo, che era apparso all'inizio del XX secolo per opporsi al modello produttivista del XIX secolo e che, all'inizio del XXI secolo, ha portato alla produzione di esternalità negative e di ogni sorta di tossicità (tossic assets, inquinamento, depauperamento delle risorse, distruzione della vita mentale, attention deficit disorder – sindrome da deficit di attenzione –, comportamenti patogeni di ogni genere, intossicazione dei corpi a causa del consumo eccessivo, irresponsabilità e inciviltà generalizzate, oltre allo sviluppo sempre più generalizzato della menzogna e dell'inganno4, della corruzione, che provocano il divenire-mafioso del capitale, ciò che Keynes aveva avvertito giungere già dal 19305, ecc.) è divenuto caduco e deve cedere il posto a un altro modello industriale.
Noi chiamiamo questo nuovo modello economia della contribuzione. Quest'ultima è caratterizzata in primo luogo dalla molteplicità delle forme di esternalità positive che genera. Le esternalità positive sono un prendersi cura di sé e degli altri in senso sia individuale che collettivo. Esse rilevano anche quello che, in particolare dopo il lavoro di Amartya Sen, chiamiamo capacità.
L'economia della contribuzione – di cui vediamo lo sviluppo, dopo circa vent'anni, di forme che restano spesso incoative, ovvero embrionali, ma che alle volte sono anche molto avanzate – come l'economia dell'open source, che diventa il modello dominante dell'industria informatica dominando essa stessa l'insieme dell'industria –, risulta da una trasformazione comportamentale indotta, in larga misura, dalla realizzazione di reti digitali.
Su Internet, come ognuno può in ogni momento constatare, non ci sono produttori da un lato e consumatori dall'altro: la tecnologia digitale apre uno spazio reticolare di contributori, che sviluppano e condividono i saperi, e che formano quello che abbiamo chiamato un milieu associato – riprendendo così un concetto di Gilbert Simondon. Questa condivisione, che ricostituisce i processi di sublimazione e che, in questo modo, ricostruisce un'economia produttrice di desiderio, di engagement e di responsabilità individuali e collettive di lotta socialmente articolate secondo nuove forme di sociabilità, apre uno spazio di lotta contro la dipendenza, la desublimazione, il disgusto e, più generalmente, contro l'intossicazione speculativa e la «tossicodipendenza».
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4. Chiunque osservi le pratiche che proliferano nelle reti digitali non può tuttavia che essere sorpreso sia per la velocità della loro diffusione – in particolare di quelle che sono ormai chiamate «reti sociali» – e sia dal fatto che in esse si sviluppano dei comportamenti iper-consumistici e di dipendenza che spesso si rivelano ancora più violenti e mimetici di quelli nati dalle industrie culturali caratteristiche della società di consumo.
Noi sosteniamo che ciò si verifica principalmente per le seguenti ragioni:
4.1. Come affermiamo nel Manifesto del 2005, le tecnologie numeriche sono le forme contemporanee di quello che i Greci dell'antichità chiamavano hypomnémata, vale a dire mnemotecniche. Ora, queste mnemotecniche sono anche e sempre ciò che Platone chiama pharmaka, ovvero veleno e rimedio.
4.2. Più generalmente poniamo che, 1) ogni tecnica è «farmacologica» nel senso che è potenzialmente sia nociva che benefica; 2) in assenza della definizione di «terapeutico», o di ciò che i Greci chiamavano melete e epimeleia (disciplina, sollecitudine, cura), che presuppone una tecnica del sè6, un pharmakon diviene necessariamente tossico.
Poniamo di conseguenza che una politica – vale a dire ai giorni nostri necessariamente un'economia politica – è, in primo luogo, unsistema di cure che consiste nello stabilire dei modi di vita (e una cultura) in grado di avere a che fare con uno stato farmacologico (tecnico e mnemotecnico) dato. Una cultura è ciò che coltiva un rapporto che abbia cura dei pharmaka che compongono il mondo umano, e che dunque lotti contro la loro sempre possibile tossicità.
4.3. Per più di due millenni, l'istituzione dei «saper-vivere» che, in tutte le loro forme costituiscono i sistemi di cura che prescrivono gli usi positivi dei pharmaka, è stata dominata da un rapporto privilegiato alla scrittura costituente come tale il pharmakon di riferimento – che sia stato sotto la forma delle Scritture, o come biblioteca delle Umanità, poi della Scienza della Repubblica delle Lettere, o come stampa attraverso la quale si forma un'opinione pubblica. È sulla base di questo pharmakon alfabetico e della sua estensione grazie alla macchina da stampa (e con la Riforma che fondamentalmente ne deriva), che si è stabilito il tipico “saper-vivere” occidentale – il cui modello si è diffuso in tutto il mondo, in particolare per via delle Missioni dell'ordine Gesuita che preparavano spiritualmente all'espansione planetaria dei mercati industriali e, insieme ad essi, della tecnologia occidentale7.
4.4. La società consumista si è imposta sviluppando e sfruttando sistematicamente le industrie culturali, che costituivano le nuove forme degli hypomnemata. Queste mnemotecnologie industriali sono entrate in concorrenza con l’hypomnematon alfabetico e le industrie dei programmi (radio e televisione) sono entrate in concorrenza con le istituzioni dei programmi (scolastiche e universitarie). Ne è risultata una disvalorizzazione della tradizione del pensiero che era la matrice del «saper-vivere» occidentale: quella del logos e di ciò che noi ancora chiamiamo ragione, retta dai vincoli formali della teoria. La ragione si è vista rimpiazzata dalla razionalizzazione (come la intendevano Weber, Adorno, Marcuse e Habermas).
Gli hypomnemata analogici ed elettronici, monopolizzati dalle strutture industriali, inaccessibili alle pratiche individuali, e massivamente sottomesse all'opposizione fra produttori e consumatori, non hanno dato luogo ad una rielaborazione delle forme di saper-vivere. Sono, al contrario, serviti a distruggerle, e rimpiazzarle con le prescrizioni del marketing attraverso le industrie dei programmi, indebolendo le forme fuoriuscite dall'epoca nella quale il libro e le sue innumerevoli istituzioni strutturavano le forme del sapere – in particolare nella democrazia moderna e post-rivoluzionaria.
4.5. L'hypomematon numerico che è apparso alla fine del XX secolo, permette di superare questo stato dei fatti. Ma come ogni hypomnematon è, in primo luogo, un pharmakon: richiede l'invenzione, l'istituzione e la trasmissione di pratiche di cura che siano anche tecniche di sé e degli altri, come ci ricordava Michel Foucault. Ora, il marketing, principale funzione dell'economia in una società di consumo, si è immediatamente impossessato degli hypomnemata, che sono anche tecnologie relazionali8 estremamente potenti, attraverso le quali i marchi cercano di perpetuare e anche di intensificare e demoltiplicare i modelli complementari tossici e tipici del consumismo, nel momento in cui le industrie culturali che ne erano state i vettori storici sono entrate in crisi – la socializzazione delle tecnologie numeriche si è così compiuta essenzialmente sul versante velenoso e pulsionale del pharmakon.
4.6. Sin dalla «rivoluzione conservatrice» imposta a tutto il mondo dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti di Margaret Tatcher e Ronald Reagan, la potenza pubblica ha rinunciato a intervenire nella vita economica e industriale così come a regolare la tendenza speculativa del capitale. Ciò significa che ha totalmente rinunciato a ciò che, tuttavia, è il suo ruolo par excellence, vale a dire: favorire lo sviluppo di ciò che, nelle tecniche in generale e nelle menmotecniche in particolare, giunge a rafforzare la società – a fare del divenire tecnico un avvenire sociale intensificando i processi di individuazione, inventando delle forme di vita, ovvero di saper-vivere –, e a lottare, così, contro gli effetti distruttivi, atomizzanti e incivili che ogni pharmakon porta con sé.
4.7. Questa rinuncia della potenza pubblica ad esercitare la propria funzione ha condotto a una situazione di incuria sia economica che politica e, in mancanza di cambiamenti immediati, in un contesto che arriva quasi al panico globale, condurrà indubbiamente a catastrofi politiche di violenza sconosciuta e su scala planetaria.
La sfida ora non è più il rischio di una crisi economica mondiale – che ha già avuto luogo –, ma di una catastrofe politico-militare-ecologica la cui probabilità diventa ogni giorno più minacciosa. La potenza pubblica, ideologicamente condizionata e indebolita dal dogma neoliberale che ha come principio il fatto che il marketing la rimpiazzi, fugge le sue responsabilità e si lascia strumentalizzare dalle potenze economiche frutto del XX secolo, che hanno fatto accrescere il consumismo, che realizzano ancora enormi profitti con esso e che lottano ferocemente perché questo modello non cambi nonostante esso è diventato autodistruttore – e così esse stesse si autodistruggeranno ciecamente.
Di fronte all'incuria che potrebbe divenire fatale, le forze politiche devono ora prendere una chiara posizione.
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5. Oggi, nel 2010, a cominciare dagli insegnamenti fornitici dalla crisi, ma anche dalle nuove pratiche che si sono sviluppate ben prima di questa crisi e contro ciò che l'ha causata, è possibile ricostruire un progetto politico portatore di una nuova affermazione del ruolo della potenza pubblica, vale a dire: fare del divenire tecnico un avvenire sociale.
Sosteniamo che questa nuova politica deve porre al cuore della sua azione l'accompagnamento di un nuovo modello industriale che emerge già attraverso le forme nascenti dell'economia della contribuzione.
Non ignoriamo, tuttavia, che il modello consumistico è ai giorni nostri più che mai non solo dominante, ma propriamente egemonico. L'egemonia si compie sempre (raggiunge il proprio optimum) nello stesso momento in cui incontra il proprio limite: è nel momento in cui è più potente che è più prossima a crollare, è lo stesso eccesso in cui essa consiste che la porta alla rovina.
Tuttavia, se questo crollo è già cominciato, non ignoriamo che la responsabilità economica e politica consiste in primo luogo, ancora oggi, a «far funzionare le fabbriche» ed a «riempire il paniere del consumatore medio», ovvero, in un modo o nell'altro, a far durare questa egemonia. Ma sappiamo anche, allo stesso tempo, e come tutti sanno, che questo modo di fare non può in nessun modo durare: sappiamo che questa realtà non può durare né a lungo né a medio termine.
Poniamo di conseguenza che oggi, più che mai, un’autentica azione politica – non come ricerca di potere fine a se stesso, ma come realizzazione di un nuovo sapere politico ed economico, che formi una nuova volontà sociale – consiste nel garantire il breve termine per avere accesso al lungo termine . Quest’ultimo, a sua volta, consiste precisamente non solo nel superare il breve termine, ma a rovesciarne i caratteri dominanti.
Ognuno di noi è attraversato da questa contraddizione di essere allo stesso tempo, in qualche modo, un consumatore e un cittadino cosciente del fatto che le modalità consumistiche del consumo sono diventate tossiche – e contraddittorie con le obbligazioni più elementari della cittadinanza.
Ognuno di noi si confronta con il sentimento di una nuova responsabilità individuale e collettiva e con la realtà del suo proprio comportamento, sempre in qualche modo irresponsabile. Ognuno di noi – indipendentemente da quali possano essere le proprie negazioni e cecità – è più o meno diventato consumatore dipendente e infelice.
Ognuno di noi, d'altra parte, ha bisogno che l'economia non solo non crolli, ma che si sviluppi – e, in particolare, i duecentocinquanta bambini che, nel 2010, nascono ogni minuto, vale a dire trecentocinquantamila al giorno e circa cento milioni all'anno.
Noi e i nostri simili siamo dipendenti dall'economia consumistica anche quando la combattiamo e la soffriamo. Tuttavia, sappiamo che non può durare perché, come organizzazione dell'innovazione fondata sulla gettabilità, lo spreco, l'incuria e la cecità, è in contraddizione con l'avvenire – e minaccia i cento milioni di bambini che nascono ogni anno.
Affidando al marketing la concretizzazione del divenire tecno-economico, il neoliberismo ha liberato una potenza cieca che ha distrutto l'avvenire e che demoralizza in maniera pericolosa le generazioni più giovani – così come le minaccia oggettivamente. Questa è la reale posta in gioco della crisi.
Poiché ormai ognuno di noi lo sa, più o meno intuitivamente, è tuttavia divenuto possibile convincere le popolazioni dei paesi industriali di proiettare, attraverso un cammino critico negoziato, discusso, non monopolizzato dalle lobby, e contrattualizzato su una scala di tempo conciliante i vincoli del breve termine con le prospettive del lungo termine, una nuova economia industriale fondata sulla cura – e non si tratta, ovviamente, di adattare semplicemente il modello caduco a un consumismo «verde»: si tratta di inventare un nuovo «saper-vivere» e ciò implica delle proposizioni ed un pensiero politici, economici e industriali radicalmente nuovi.
La responsabilità industriale e collettiva, scientifica e cittadina, politica e economica, consiste nel proiettare le condizioni del passaggio da un sistema che era fondato sul «disapprendimento», vale a dire sulla distruzione degli stessi saper–fare teorici e critici, dunque su una stupidità sistemica (è quello che significa l'affare Madoff), a un sistema fondato sullo sviluppo e la valorizzazione di ogni tipo di capacità, cioè di tutte le forme dei saperi (saper-fare, saper vivere, saper teorizzare).
Di fronte alle possibilità, inascoltate, aperte dalla digitalizzazione, tutto il mondo rivendica, nel nome della società dei saperi o dell’economia della conoscenza, l'arrivo di una nuova era. Ma il digitale, che un pharmakon, può anche aggravare la proletarizzazione generalizzata invece di mettervi un termine. Questo è il problema sia politico che economico attorno al quale si gioca l'avvenire del mondo – nell'epoca dove una «rete sociale» digitale, Facebook, è diventata la terza aggregazione mondiale di individui umani con cinquecento milioni di membri al mese da luglio 2010.
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6. Chiamiamo proletarizzazione il processo attraverso il quale un sapere individuale o collettivo, formalizzato da una tecnica, una macchina o un apparecchio, può sfuggire all'individuo – che dunque perde il sapere che era stato suo fino a quel momento. Le prime definizioni di proletarizzazione, provenienti dalle analisi di Smith così come da quelle di Marx, mettono in evidenza che il depauperamento risulta prima di tutto dalla perdita del saper-fare di operai asserviti alle macchine, non più padroni dei propri mezzi.
Nel XX secolo sono i consumatori a perdere i loro saper-vivere – rimpiazzati dagli apparecchi, come il televisore, che mantiene i bambini «occupati» con dei servizi, come i canali televisivi che si occupano dei bambini attraverso l'apparecchio di ricezione televisiva, ma in modo tale da creare il «tempo mentale disponibile». Questa perdita porta ad una mancanza di riconoscenza, di sociabilità e, infine, di esistenza che genera la sofferenza del consumatore divenuto infelice.
Ma i lavoratori intellettuali del capitalismo a dominanza cognitiva, le cui funzioni sono sempre più relegate a regolare dei sistemi di informazione di cui non possono modificare i principi – perché molto spesso li ignorano – subiscono una proletarizzazione delle funzioni cognitive superiori dove ciò che è stato perduto è ciò che costituisce la vita dello spirito in quanto istanza critica, ovvero razionale, capace di auto-formalizzarsi teoricamente e, in questo, di auto-criticarsi.
La dichiarazione di Alan Greenspan di fronte alla Camera dei Rappresentati è, a questo riguardo, eloquente: ha affermato che non c'era alcun sapere teorico relativo al funzionamento finanziario che egli doveva amministrare – proprio mentre Bernard Madoff era il presidente del Nasdaq.
Il motivo del successo del modello contributivo che emerge grazie alle reti digitali (comunque limitato nel poter restare a causa del fatto che il vecchio sistema, che ha innumerevoli privilegi da difendere, gli fa una guerra senza pietà. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il movimento sia economico, che tecnologico, giuridico, politico, sociale e culturale del software libero), è che segna una rottura nei confronti di questa situazione di proletarizzazione generalizzata che è stata imposta dal consumismo a tutti gli attori sociali, indipendentemente da dove possano provenire.
Questa rottura non è un rifiuto di nuove possibilità tecniche, al contrario mira a socializzarle, ovvero a metterle al servizio della società: non al servizio di un' “innovazione” distruttrice fondata sulla gettabilità e sulla regressione sociale che ne risulta inevitabilmente, ma al servizio di un'innovazione sociale (sociétale)9 che coltivi ciò che, nell'evoluzione della tecnologia e della scienza che socializza e concretizza, permette di prendersi cura del mondo e del suo avvenire.
Il fatto che gli hypomnemata siano, in quanto pharmaka, sia rimedio che veleno, significa che per la nostra epoca, le tecnologie elettroniche, monopolizzate dai poteri economici figli del XX secolo, come le psicotecnologie al servizio del controllo comportamentale, devono diventare delle nootecnologie, cioè delle tecnologie dello spirito al servizio della deproletarizzazione e della ricostruzione dei saper-fare, dei saper-vivere e dei saperi teorici.
La deproletarizzazione, che è una riconquista della responsabilità (ciò che Kant chiamava «la maggiorità») deve essere messa in testa alle finalità politiche ed economiche da promuovere e da realizzare negli anni a venire. Il carattere esemplare delle lotte condotte dagli attivisti del software libero è che, per la prima volta, dei lavoratori fuorisciti dal mondo industriale inventano una nuova organizzazione del lavoro e dell'economia che ha fatto della deproletarizzazione il suo principio e credo.
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7. Questo modello può essere generalizzato. Non concerne esclusivamente il mondo digitale – anche se necessita in ogni caso dell'esistenza di infrastrutture digitali10 che ricostituiscano un ambiente industriale e tecno-geografico associato11. Implementando le tecnologie la cui misura del tempo è la velocità della luce, costituendo così un tempo-luce che sostituisca il tempo-carbone del XX secolo (che include la produzione di energia fotovoltaica), la struttura reticolare di tale infrastruttura non sarebbe più basata su una organizzazione centralizzata che controlla una periferia, ma su reti di server che possono formare degli spazi di contribuzione nei quali si reinventa l'isonomia e l'autonomia che costituivano i fondamenti della cittadinanza greca, partecipando così, nella nostra epoca e in questo nuovo contesto, alla vita economica.
Il trasmettitore, la stazione di potere centralizzato, l'ufficio centrale di acquisto lasciano spazio ai server, agli smart grid, alle organizzazioni cooperative, contributive e collaborative, come le AMAP12 (Association pour le maintien d’une agriculture paysanne). Con gli smart grid le energie rinnovabili diventano possibili, non ci sono più i produttori d'energia da un lato e i consumatori dall'altro: lo smart grid costituisce una capacità di produzione condivisa e plastica. Ma è anche l'organizzazione cooperativa, collaborativa e contributiva delle imprese e nelle imprese, e nei rapporti fra impresa e coloro che ne diventano contributori – e non soltanto i clienti – ad essere chiamato in causa – secondo i modelli cooperativi che, naturalmente, restano da delineare e favorire, ma la cui etica (intesa nel senso di Max Weber) è quella della cura intesa come economia politica, e che dovranno trarre un insegnamento dal fallimento del movimento cooperativo promosso un tempo da Charles Gide e Marcel Massus.
In questa società reticolare, dove ogni sorta di tecnologia relazionale prolifera, la farmacologia delle tecnologie dello spirito – in grado di fare delle reti digitali nuove capacità di individuazione, processi di capacitazione per dirlo con parole di Sen13, e in grado di lottare contro un uso di tali reti, messe la servizio dell'iper-consumismo tossico, che crea più che mai dipendenza, distruggendo ancora di più la sociabilità – divenga una priorità delle collettività locali e territoriali.
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8.L'ecologia relazionale costituisce in effetti la sfida di quella che si annuncia come l'epoca di una nuova territorialità – se è vero che le tecnologie relazionali sono territorializzate e localizzabili secondo tutti i punti di vista, accessibili e introducibili a partire dai server locali, ma comunque geo-riferiti e geo-localizzati attraverso un sistema di reindirizzamento planetario che diffonda l'uso del GPS tramite intermediari come l'automobile, il cellulare e metadati come quelli che hanno reso possibile Google Earth. Tale capacità di rilocalizzazione si combina con il post-consumismo, nel quale consiste l'economia della contribuzione, al fine di dare avvio all'era di ciò che bisogna imparare a pensare come una post-globalizzazione.
La fine del consumismo è la fine della globalizzazione, in quanto essa consiste a mandare in corto circuito e, infine, a dis-integrare letteralmente i territori. Le tecnologie relazionali e reticolari, per quanto siano oggetto di una politica territoriale, nazionale e internazionale appropriata, costituiscono al contrario le tecnologie della riterritorializzazione. Il territorio è uno spazio di esternalità positive e negative che i suoi abitanti conoscono – e ne hanno un sapere insostituibile. Il territorio è, in questo, il terreno privilegiato per la deproletarizzazione politica – di lotta contro la proletarizzazione del cittadino diventato nient'altro che consumatore, cosa che ha rafforzato sistematicamente il marketing politico fornitore di prodotti elettorali sempre più mediocri.
La post-globalizzazione non è tuttavia un ripiego territoriale: è, al contrario, l'iscrizione del territorio in una reticolarità planetaria che può arricchirsi di partner in tutti i livelli che lo compongono, dalla relazione interpersonale resa possibile dalla liberazione delle regioni rurali realizzando la politica dell'era digitale, all'impresa che, impiegando la sua competenza in ambito locale e in maniera contributiva, sappia costruire uno spazio relazionale deterritorializzato: lo spazio relazionalmente ecologico è un territorio di iper-apprendimento – e facciamo qui riferimento alle analisi di Pierre Veltz14.
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9. Una simile politica dei territori digitali deve tuttavia essere sostenuta da una politica nazionale e, nel caso dell'Europa, da una politica europea, che devono, in particolare, al di là di una politica nazionale dei territori con i territori – e non per metterli in concorrrenza fra loro, come il dogma neoliberale ha irresponsabilmente imposto –, declinarsi attraverso:
9.1. una politica scientifica, tecnologica e industriale che favorisca la coerenza del nuovo sistema tecnico-numerico nel senso di un nuovo modello industriale, rompendo con risolutezza, ma in modo ragionato e ragionevole (supportabile dai vincoli a breve e medio termine dell'economia) con il modello industriale caduco del capitalismo consumista15;
9.2. una politica di ricostruzione dei sistemi finanziari conformi ai bisogni dell'economia di investimenti, protetti dalla speculazione16, rompendo con il modello consumista che non funziona se non attraverso il debito pubblico e privato sotto la dominazione di attori finanziari diventati trans-nazionali17;
9.3. una politica educativa, scolastica e universitaria, che tragga completamente vantaggio dalle nuove forme di hypomnemata al servizio dell'insegnamento non per proletarizzare ancora di più i cittadini, cosa che potremmo per mille ragioni temere a causa di determinati progetti di digitalizzazione degli spazi del lavoro scolastico, ma al fine di riarrangiare nel migliore dei modi il sapere accumulato attraverso la scrittura e nuove forme di scrittura come gli hypomnemata digitali – nuove forme di pharmaka, e dunque di veleni, di fronte ai quali i “digital natives”, ma anche i loro genitori e insegnanti, sono oggi abbandonati, nelle mani di un mercato che se ne appropria senza limiti in mancanza di una qualsiasi politica pubblica;
9.4. una politica fiscale, nazionale e territoriale, che favorisca il prosperare di attività produttrici di esternalità positive in stretta relazione con una politica del tempo del lavoro, delle nuove forme di lavoro e della sua organizzazione, tale che si distingua chiaramente dal lavoro;
9.5. una politica delle pratiche sociali che faccia della cultura un investimento sociale, l'elemento principale e primordiale della deproletarizzazione e un cantiere permanente di «capacitazione» degli individui e, attraverso essi, degli stessi territori – la cultura intesa come capacitazione in quanto, anche, invenzione di nuove forme di cura, di tecniche del sé e del noi, ovvero del saper-vivere;
9.6. una politica sanitaria in materia di tossicità delle psicotecnologie e d'ecologia relazionale che affronti la questione delle dipendenze senza droga, che deve essere appresa da un punto di vista farmacologico nel senso inteso da Platone (e non in quello dell'industria farmaceutica): nel senso in cui il veleno è anche spesso l'unico rimedio purché ne sia proposta una terapeutica basata sulla cura, intesa in senso molto più ampio, come cultura ed educazione;
9.7. una nuova politica dei media, che tragga le conseguenze della loro rovinosa deriva al servizio del populismo industriale, indotto esso stesso dal divenire pulsionale del consumismo, e che restituisca alla stampa e alle industrie dei programmi, in particolare quelle che possono, tramite la digitalizzazione, evolvere in modo funzionale – obbligatoriamente –, un ruolo funzionale e primordiale nella formazione dello spazio pubblico come lotta contro l'incuria, la distruzione dell'attenzione, la proletarizzazione generalizzata e la liquidazione di ogni forma di responsabilità.
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10. Approfondiremo e rileggeremo i temi come abbiamo già iniziato a fare attraverso le indagini sistematiche intraprese nel corso degli ultimi cinque anni. Lo faremo:
l sviluppando gruppi di lavoro sul modello già messo a punto intorno alle tecniche del sé;
l lavorando direttamente con i territori (cosa che facciamo già con Nantes Métropole e con il Consiglio Regionale du Nord–Pas–de–Calais, e che abbiamo già progettato con la Région Centre),
l realizzando tecnologie contributive con gli aderenti – cosa che abbiamo cominciato a concretizzare grazie all'aiuto del Consiglio Regionale dell'Ile de France, e con il software “Lignes de temps”;
l sviluppando attività di ricerca secondo un modello simile a quello che la Scuola di Francoforte tentò di concretizzare nel suo Istituto di Ricerca Sociale all'inizio del XX secolo in Germania e negli Stati Uniti.
Traduzione italiana: Margherita Rasulo
1.http://www.arsindustrialis.org/node/1474
2. La stupidità sistemica è prodotta dal fenomeno di proletarizzazione generalizzata, ovvero da una perdita generalizzata dei saperi (rimpiazzati dall'informazione) che colpisce i progettisti e i consumatori come i produttori.
3. In questa società dell'incuria, il modello industriale caduco tenta oggi di perdurare come industria del riciclaggio che riposa su un rifiuto della realtà. Così British Petroleum viene rinominato Beyond Petroleum, anche se la realtà di questa attività industriale, che si maschera dietro una nuova politica della comunicazione, è smascherata nel Golfo del Messico. L'industria farmaceutica che «tratta» come nuove molecole i problemi d'attenzione delle nuove generazioni, provocati in gran parte dalle industrie dei programmi, fa sistema esse dissimulando le cause economiche e sociali della distruzione dell'attenzione – vale a dire della stessa socialità. Ovunque, un'industria dell'incuria pone chi «tratta» i problemi indotti dalle esternalità negativi (psichiche, economiche, ambientali), problemi che essa stessa ha prodotto e che dissimula come bluff comunicazionale che ipoteca pericolosamente e alle volte irreversibilmente l'avvenire, ma al quale gli attivisti politici, che non fanno che parlare soltanto di «rilancio della comunicazione», non trovano nè il coraggio nè l'intelligenza di resistere: la decrescita si è nettamente sostituita alla crescita.
4. cfr. Henri Atlan, De la fraude, Le monde de l’ONAA, éditions du Seuil, 2010
5. cfr. J. M. Keynes, Economic Possibilities for Our Grandchildren: «se non avremo un cambiamento culturale che sia all'altezza del cambiamento tecnico economico...andiamo verso una depressione nervosa generalizzata.»
6. cfr. i lavori del gruppo Techniques de soi composto daCécile Cabantous, Julien Gautier e Alain Giffard suhttp://arsindustrialis.org/atelier–des–techniques–de–soi
7. Quest'ultima si è sviluppata nel XXI secolo sulla base di una «contingenza geografica che si trova nel sottotsuolo (il carbone) e la disposizione di una supremazia marittima e coloniale (importazione di cotone americano)», Kenneth Pomeranz, La force de l’empire, Révolution industrielle et écologie, pourquoi l’Angleterre a fait mieux que la Chine, éditions Ere, 2009 p. 16 8. 8. Le tecniche relazionali alle quali le tecnologie relazionali si sostituiscono sono primarie nella costituzione degli individui: costituiscono il cuore dell'individuazione psichica e collettiva. Dalle politiche che le accompagnano dipende lo sviluppo delle potenzialità che rappresentano: sia come veleno se si abbandonano alle «buone cure» di un marketing irresponsabile, sia come rimedio se diventano oggetto di una politica curiosa – come la intende Bousset, ovvero come lotta contro l'incuria.
9. secondo il concetto proposto da Franck Cormerais cfr.
http://arsindustrialis.org/pour–une–economie–de–la–contribution–1
10. Per questa infrastruttura, per i problemi che pone il numerico, in particolare come attività mentale del lettore, per il passaggio da «tempo carbone» a «tempo luce», cfr. Pour en finir avec la mécroissance. Quelques réflexions d’Ars Industrialis, Flammarion, 2009.
11. cfr. Gilbert Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier,1969
12. «Una AMAP nasce generalmente dall'incontro fra un gruppo di consumatori e un produttore pronti a entrare nell'andatura. … Insieme, definiscono la diversità e la quantità dei prodotti alimentari da produrre per la stagione. Questi ultimi possono essere anche frutta, verdura, uova, formaggio, carne...»www.reseau–amap.org/amap.php
13. Sen Amartya, L’idée de justice, Flammarion, 2009
14. Egli scriveva nel 1994 che «bisogna smettere di considerare un piano regolatore del territorio come processo di redistribuzione e ripensarlo come un insieme di politiche che favoriscono la creazione di risorse e di ricchezze nuove. Il che può sembrare banale, ma è una rivoluzione copernicana». Pierre Veltz, Des territoires pour apprendre et innover, Editions de l’Aube, 1994, p. 5. «Lo sviluppo economico dei territori, come lo sviluppo in generale, oggi passa per la densità e la qualità delle reti fra i soggetti politici» Ibid. p. 8 «Questa economia sempre più aperta è anche un'economia sempre più “relazionale”». Ibid. p. 9 «L'incentivo primario per i territori, l'incentivo decisivo sarà quello delle capacità di cooperazione intra ed extra-regionale...» Ibid. p. 10.
15. è la sfida, in particolare per i territori, di una critica del paradigma attualmente in voga della creative economy, che resta essenzialmente consumistica e che tuttavia apre le questioni dell'economia della contribuzione.
16. cfr. Paul Jorion, L’implosion, La finance contre l’économie, éd. Fayard, 2008, p.3
17. cfr. Frédéric Lordon, La crise de trop, reconstruction d’un monde failli, éd. Fayard, 2009, p.90: «avevamo finito per perdere di vista il sistema bancario e gestionale di fatto di un bene pubblico, vale a dire la moneta e la sicurezza dei guadagni»
18. cfr. Amartya Sen, L’Economie est une science morale, éd. de La Découverte, 2003 p.64
[1]
Il termine assuefatrice, se pure poco comune in italiano è quello che probabilmente meglio traduce per economia linguistica, e anche grazie all’assonanza, il termine francese addictogène, la cui traduzione più adeguata, letteralmente, viene resa in italiano dal concetto “che crea dipendenza”.